La polemica nata sul palco dell’Ariston durante la quarta serata non mi ha lasciata indifferente, non solo perché sono una donna, ma perché, nel mio piccolo, sono anche un’addetta ai lavori. La polemica in questione è quella nata in seguito all’affermazione di Beatrice Venezi di definirsi e volere che gli altri si rivolgano a lei con il titolo di “direttore d’orchestra” e non di “direttrice d’orchestra”.
Oggi 8 marzo, Giornata Internazionale per i Diritti delle Donne, credo sia opportuno fare chiarezza su alcuni punti che questa discussione, affrontata spesso come chiacchiera da bar, ha messo in evidenza.
Iniziamo con il dire che dal punto di vista più strettamente grammaticale, la Venezi non ha torto, perché, come ha evidenziato anche il presidente della Crusca, Claudio Marazzini, lei aveva a disposizione tre scelte: quella più tradizionale e da lei scelta di direttore, quella declinata al femminile (un femminile esistente e largamente attestato) e quella più innovativa di direttora. In questo caso la donna ha scelto la prima opzione.
Accetto quindi la scelta sua scelta e la rispetto, ma non posso condividerla e non posso per i termini in cui è stata posta: il titolo di direttore d’orchestra è sempre stato usato al maschile perché, di fatto, fino a poco tempo fa non era possibile, per le donne, accedere a determinate carriere e quindi la lingua non aveva mai dovuto adattarsi a quest’evenienza. Il secondo punto che emerge dalle affermazioni fatte sul palco sanremese, usate qui solo a scopo dimostrativo, è che la scelta della declinazione del proprio titolo esuli da merito e si leghi di fatto solo a una questione di tradizione: non posso che dare ragione alla direttrice Venezi, ma mi chiedo se chiamarsi direttrice avrebbe davvero inficiato sul merito, o meglio, avrebbe davvero messo in discussione il suo merito. In verità declinare al femminile non sarebbe stato altro che la diretta conseguenza, contemplata dalle grammatiche, del genere di appartenenza della donna (per dirlo in maniera più chiara e semplice: essendo lei una donna, avrebbe dovuto avere un nome declinato al femminile), niente di più niente di meno.
Il problema, che diventa un problema di carattere sociale, di percezione, più che di carattere grammaticale, è molto sottile e in verità molto più grave. La scelta di continuare ad utilizzare il maschile nel mondo professionale deriva da uno spesso non riconosciuto sostrato maschilista e patriarcale: i nomi maschili vengono sentiti come maggiormente autorevoli, mentre quelli femminili sono definiti cacofonici, strani, abominevoli e questo solo perché sono diversi da quello che siamo abituati a sentire o a leggere. Tradizionalmente alcuni nomi non esistevano nel loro femminile, perché la maggior parte delle posizioni lavorative non erano accessibili alle donne. E questo ostracismo sembra acquisire caratteri sociali quando vediamo che nell’uso è entrato senza colpo ferire il termine ostetrico, mentre quello del balio (attestato per la prima volta nel 1939) non viene utilizzato, perché un uomo non può fare la balia, non secondo un mondo in cui ad occuparsi di figli e bambini in generale, sono solo le donne.
Le parole danno forma al mondo in cui viviamo e questo non è -come pensano i grandi grammatici da tastiera, che si sentono in dovere, in quanto parlanti della lingua, di commentarla come veri esperti – solo aria fritta. Noi viviamo nelle parole che pronunciamo e ciò che non è utilizzato, che non viene pronunciato, tende a sparire: utilizzare il giusto genere nell’ambito professionale vuol dire riconoscere la posizione della donna nel mondo lavorativo con la sua identità.
Parlare una lingua non vuol dire essere esperti di quella lingua e di linguistica e ancora meno di sociolinguistica. Mi fanno sorridere i commenti letti in questi giorni su diversi social network dove, con scarse conoscenze della grammatica di base, si ironizzava su questa tendenza “talebana” al volere la propria identità riconosciuta professionalmente anche dal punto di vista linguistico (o forse sarebbe più corretto dire almeno dal punto di vista linguistico visto che dal punto di vista salariale e dell’impiego la parità di genere è ancora un miraggio lontano?). Ho letto spesso sul web che termini come sindaca, rettora/rettrice siano cacofonici e rasentino il ridicolo, così come anche la parola ministra. Più recentemente, proprio grazie alle affermazioni della Venezi, ci si chiedeva, sotto gli articoli che richiamavano la vicenda come ora ci si debba aspettare di sentire piloto o dentisto. Provo a spiegare in due parole come sindaca sia cacofonico solo perché non siamo abituati a sentirlo: ribadisco semplicemente che prima le donne non potevano ambire a un tale posto e la lingua, che non crea se non al bisogno, non aveva mai avuto questa esigenza. Davanti alla seconda affermazione, abbastanza diffusa, sono rimasta invece basita all’inizio, perché posso capire che non si sappia che queste parole sono definite ambigeneri, che valgono cioè per entrambi i generi (solitamente terminati in -a e derivanti dal greco: pediatra, foniatra, logopedista) e che per queste basti affiancare l’articolo declinato al genere di riferimento (problema che solitamente si manifesta solo al singolare).
Il problema è che l’idea che un femminile non possa avere la stessa dignità professionale di un maschile è parte più grande di un sistema che è fatto ancora a misura d’uomo e non di essere umano e che esclude o contempla a fatica, che le donne possano fare gli stessi mestieri degli uomini. Non dire una parola, non dirla declinata correttamente può sembrare solo una sciocchezza, ma è in verità il riflesso della società in cui viviamo: perché sono i parlanti a fare una lingua e i parlanti utilizzano solo le parole che servono per descrivere la loro realtà. Le parole, tutte, hanno un peso e devono essere usate con cognizione di causa e con attenzione, perché sono la nostra cartolina da visita, sono il pennello con cui disegniamo il mondo. Abbarbicarsi e murarsi dietro il muro della tradizione è qualcosa che non funzionerà sulla lunga distanza, perché la tradizione, dal punto di vista linguistico, è un concetto labile, destinato a mutare con il trasformarsi del mondo che descrive: possono volerci anni, oppure secoli, ma una lingua non rimane mai uguale a sé stessa, se è una lingua viva. Cambiare il modo di parlare ora, vuol dire cambiare ora la realtà, una realtà che esiste già, ma che sembra non voler essere riconosciuta pienamente.