“Odio gli indifferenti”, un piccolo-grande libro in cui Antonio Gramsci esorta tutti ad essere cittadini veri, responsabili della propria vita, ad evitare il pressapochismo, il qualunquismo e l’ignavia, mi fa riflettere su ciò che accade, ormai da poco più di 70 anni, nel territorio della Palestina.
Un conflitto, giunto alla dodicesima guerra in poco più di 70 anni, che va avanti fra l’indifferenza di molti, sempre più dimenticato dall’opinione pubblica, trattato dai mezzi di comunicazione con scarse notizie e spesso distorte, affrontato dai potenti del mondo come un fastidio da gestire piuttosto che un problema da risolvere e che ha causato finora povertà, un popolo allo sbando e tante, troppe morti fra la popolazione civile.
Le due fazioni intanto si fronteggiano in una situazione di asimmetria abissale: una sproporzione che vede uno stato industrializzato che controlla capillarmente il territorio contro un popolo frammentato e limitato dalle restrizioni imposte dagli occupanti.
Lanci di pietre contro un corpo di polizia altamente addestrato e specializzato, razzi primitivi contro uno degli eserciti più avanzati del mondo. In quella regione, non così lontana da noi da potercene dimenticare, si continuano a contare i morti: negli ultimi 11 giorni 65 bambini palestinesi uccisi e altri 540 feriti; 2 bambini uccisi e 60 feriti in Israele. Dati dell’UNICEF che confermano la profonda sproporzione fra le due parti in lotta per un territorio.
Dietro a questi numeri ci sono bambine e bambini. La vita nella striscia di Gaza dove vivono, secondo i dati dell’ONU circa 1.600.000 palestinesi sfollati, non è facile. La metà di quella popolazione è costituita da minorenni che, invece di coltivare sogni, come sarebbe giusto, devono fare i conti con un’estrema povertà e con una guerra che sembra non avere mai fine.
Interi palazzi distrutti, edifici scolastici e strutture sanitarie danneggiati non più agibili, circa 107.000 le persone costrette ad abbandonare le proprie abitazioni. Sono almeno 800.000 i palestinesi che non hanno accesso all’acqua corrente per il danneggiamento delle reti idriche.
Non solo l’indifferenza, ma ancor peggio è il ruolo, nemmeno tanto ambiguo degli Stati Uniti che avrebbero dovuto agire come mediatori del conflitto. Hanno invece protetto l’espansione israeliana dalla condanna internazionale, facendo uso del diritto di veto di cui godono all’ONU. Ultimamente Mr. Donald Trump ha perfino spostato l’Ambasciata USA a Gerusalemme legittimandola capitale dello stato israeliano.
Così come abbiamo condannato la persecuzione degli ebrei in altro periodo storico, ugualmente il mondo dovrebbe ora condannare l’occupazione, la prepotenza e la persecuzione degli israeliani nei confronti della comunità palestinese. Ma viviamo in un “mondo malato”, per dirlo alla Mafalda, e anche molto ingiusto che ancora risolve le controversie erigendo muri di segregazione razziale (sono dieci nel mondo!) con estrema facilità ed indifferenza; per uno che crolla, molti altri se ne costruiscono. Il più famoso appunto quello eretto nella primavera del 2002 da Israele in Cisgiordania che sancisce il punto di rottura con la popolazione palestinese, chiamato a ragione “il muro della vergogna”.
Questa volta la scintilla che ha aperto le ostilità in quella regione martoriata ha avuto origine dal dispiegamento di militari da parte di Israele alla Spianata delle Moschee, luogo sacro per i palestinesi e dalla loro espulsione dal quartiere palestinese di Gerusalemme Sheikh Jarrah. Ma sempre scoccheranno scintille fra i due popoli finché si adotteranno soluzioni tampone invece di avviare un’iniziativa internazionale di dialogo per la risoluzione definitiva del conflitto come a gran voce richiesto dal popolo palestinese.
A Milano, a Roma e in altre città non solo italiane, i giovani palestinesi uniscono le lotte. Scendono in piazza i palestinesi di 2°e 3° generazione; molti di loro la Palestina non l’hanno mai vista, ma la conoscono, attraverso i racconti ancora vivi dei loro padri e dei loro nonni, come diaspora forzata e per l’occupazione israeliana dei loro territori dove, prima della seconda guerra mondiale, convivevano senza problemi arabi ed ebrei, nel paese chiamato Palestina.