Il Covid che sconvolge le nostre vite, che detiene il primato dell’attenzione mediatica nonché di quella individuale, rischia di far passare sotto silenzio un evento simbolico in questo gennaio. Una duplice ricorrenza di destini che si incrociano: i 130 anni dalla nascita di Antonio Gramsci e i 100 anni dalla fondazione del PCI, partito che il grande pensatore sardo in prima persona si prodigò a far nascere. Entrambi ebbero vita breve ed entrambi lasciano tuttavia un segno indelebile in un’epoca di trasformazioni storiche per il nostro paese.
Gramsci, eccelso filosofo, scrittore e politico universalmente riconosciuto, letto e studiato anche come il più grande conoscitore delle dottrine marxiste dopo Marx stesso, nasce ad Ales (Cagliari) il 22 gennaio 1891.
Il Partito Comunista d’Italia nasce da una scissione del partito socialista al Teatro Goldoni di Livorno proprio un secolo fa, il 21 gennaio 1921. Scissione fortemente voluta da Antonio Gramsci e Amadeo Bordiga.
L’Italia si preparava ad entrare nei 20 anni più bui della sua storia recente e, in quel tragico periodo, il PCI visse in clandestinità. I suoi dirigenti, militanti e sostenitori costretti al confino, rifugiati all’estero o chiusi nelle prigioni fasciste.
Nel 1926 Antonio Gramsci, allora segretario del Partito Comunista d’Italia, con l’accusa di voler sovvertire violentemente (rivoluzione proletaria) gli ordini dello stato, è arrestato dalla polizia fascista e confinato ad Ustica, poi costretto nel carcere di Civitavecchia ed infine, malato, in una clinica dove, dopo undici anni di reclusione, muore il 27 aprile 1937.
In prigione elabora temi filosofici e politici, approfondisce e mette a punto, nei suoi “Quaderni dal carcere”, tradotti in tante lingue e studiati in tutti i continenti, uno sviluppo originale della teoria marxista. Scrive anche un libro di favole “L’albero del riccio” per i suoi due adorati figli. Un suo pronipote scrive recentemente i testi e disegna una fantabiografia, una “graphic novel” a lui dedicata “Nino mi chiamo” che viene introdotta dall’autore con una vignetta recante un’efficace didascalia, facendo parlare in prima persona Gramsci stesso che sintetizza la sua vita: “Sono sardo, sono gobbo, sono pure comunista, dopo una lunga agonia, in carcere spirerò. Nino mi chiamo”.
Togliatti, che da lui ereditò la segreteria del partito, disse di lui: “Gramsci fu un teorico della politica, ma soprattutto un politico pratico, cioè un combattente. Fino a che fu libero di agire, fu fondamentalmente un giornalista, un agitatore e organizzatore politico”.
Il PCI, persa l’occasione di realizzarsi come partito di maggioranza sull’onda della resistenza, pur essendo il primo partito comunista d’occidente dalla parte dei contadini, degli operai e degli oppressi, non riesce mai ad affermarsi come partito al governo. Superò una sola volta l’”invincibile” Democrazia Cristiana, alle elezioni europee del 1984 dopo la morte di Enrico Berlinguer, uno dei suoi segretari più amati e al contempo difficile da comprendere per la sua politica lungimirante.
Con i cambiamenti storici epocali a partire dagli anni 50 e 60 (l’Italia si trasforma da paese agricolo a post industriale), i contadini diminuiscono; con l’inizio dell’automatizzazione e delocalizzazione, anche gli operai tendono a decrescere e l’idea della lotta di classe e della rivoluzione sbiadisce. Il partito sopravvive ma non coglie abbastanza la forma delle trasformazioni storiche, non è in grado di aggiornare la propria identità. Nel 1991 si scioglie definitivamente dando vita ad una nuova formazione politica di stampo socialdemocratico, PDS (Partito Democratico della Sinistra) e a Rifondazione Comunista, dove converge una minoranza del vecchio partito.
Dopo 70 anni di vita, breve per un partito, il PCI se ne va… segue il suo fondatore che nonostante la sua breve vita ha però lasciato idee e scritti che restano di una sorprendente attualità e continuano a parlare alla generazione di oggi, ai suoi bisogni di credere in qualcosa che non sia il Dio denaro.