“Era una giornata di fine anno scolastico – stavamo terminando la quarta elementare – lo ricordo perché non indossavamo il grembiulino ed io ero felice di indossare una nuova camicetta a fiori rosa con i jeans. In classe ero la più alta e purtroppo l’unica bambina che aveva già iniziato a sviluppare. Ero per questo oggetto di continue prese in giro, cui cercavo di non badare troppo. Ma quel giorno non mi sarei mai aspettata che i miei compagnetti arrivassero a tanto. Tre bambini e due bambine spinti dalla cattiveria e dalla curiosità mi imprigionarono in un angolo dell’aula, durante la ricreazione, per aprirmi la camicetta. Io rimasi impaurita e terrorizzata, la maestra non era in classe. Cercai di spingerli e di ribattere alle loro risate e di corsa mi riabbottonai, quasi fosse colpa mia l’aver già sviluppato un petto da quattordicenne. Da allora camminai sempre più gobba per nascondere il seno che cresceva e cercai di indossare maglie sempre accollate. Tutt’ora a 38 anni sono ancora restia a mostrare senza vergogna il mio decolté. (…) Cerco di educare il mio unico figlio maschio consapevole del valore di ogni persona, dell’importanza delle parola rispetto e tutela, ma vedendo all’uscita di scuola gli adolescenti con il cellullare non posso non pensare, terrorizzata, a cosa sarebbe potuto succedere quel giorno se i miei compagni avessero avuto tra le mani un telefonino”.
Bullismo degli anni ottanta che ancora fa male, bullismo che segna scelte e percorsi di vita, che ci modifica il carattere e la fiducia verso il mondo. Irene C. – preserviamo il suo cognome perché ancora quell’episodio fa tanto male – è oggi una giovane mamma che lotta con gli episodi di bullismo che l’hanno accompagnata durante le scuole elementari e medie trascorse nel centro Sardegna. Nessuna colpa, se non quella di sembrare fisicamente una quattordicenne all’età di nove anni. Invidia, curiosità e cattiveria, invece, nelle azioni dei suoi compagni, in una parola: bullismo.
Irene ha un figlio di otto anni che educa a sani principi ma che a scuola, come tutti i bambini, è inserito in una dimensione di classe con regole complesse e ruoli che cambiano in continuazione in virtù di giochi di forza fisica e psicologica. La legge del branco che non lascia scampo se non attentamente monitorata da genitori e insegnanti e che, con l’invasione pesante e incontrollata della tecnologia e dei social sfugge e, priva di filtri, fa emergere sempre più spesso il peggio dell’animo umano.
“Non importa quanto tu sia timido, sfrontato, cordiale o attacabrighe, là fuori potrà esserci sempre un bullo che ti aspetta e tu dovrai esser pronto ad affrontarlo”.
Questa frase scritta da Marco, 16 anni, nel diario del fratello minore Luca di 11 anni, rappresenta la fase di passaggio che fa paura ai giovani di oggi. Quell’ansia da prestazione che normalmente si aveva i primi giorni di scuola, mista al brivido della curiosità, è diventata oggi angoscia per tanti bambini. Oggi il bullismo – e ancor più il cyberbullismo – è una piaga sociale che genera malessere, un malessere che si sta trasformando in emergenza sanitaria. I dati nazionali raccontano numeri allarmanti di ricoveri negli ospedali per autolesionismo, depressione e tentativi di suicidio tra gli adolescenti, la maggior parte dei quali riconducibili ad episodi perpetuati di violenza fisica o psicologica da parte di coetanei o comunque giovanissimi.
L’utilizzo crescente della tecnologia a causa dell’emergenza Covid ha purtroppo contribuito a una forte crescita degli abusi online e in generali di pericoli digitali e contemporaneamente ad un 30% in più dei tentativi di suicidio e autolesionismo, come registrano i presidi ospedalieri italiani.
Il bullismo e il cyberbullismo si nutrono del clamore, della presenza degli osservatori impassibili e apparentemente non colpevoli, ma senza i quali quell’atto sarebbe fine a se stesso e non decreterebbe alcuna superiorità, né vittoria. Il cyberbullismo si alimenta delle emoticons, delle condivisioni e delle risate che rendono virale il messaggio, che potenzialmente perderebbe la sua efficacia con quel primo clic. Non è più quindi quell’unico bullo o quei pochi bulli, insicuri ma più grossi, che all’uscita di scuola spaventavano i più piccoli quarant’anni fa. Oggi la forza sta nel branco, nell’essere nella chat, nella condivisione, nel mettere in rete il video più cliccato, nei follower, a discapito di chiunque e quel chiunque troppo spesso soccombe ed entra in depressione nella solitudine più totale.
Accanto ad una puntuale e costante informazione e monitoraggio dall’alto di questo morboso e sconosciuto rapporto dei giovani con la tecnologia e i loro pari, è oggi necessario un reale cambio di approccio ai social e un lavoro costante e trasversale di ri-umanizzazione dei rapporti tra individui che si basi in primis sul rispetto delle diversità, su un’educazione attenta alle differenze di genere, sull’attenzione e alla cura dei più fragili.